…e il pulviscolo atmosferico
Intervista a Paolo Parisi a cura di Daniela Bigi

 

Daniela Bigi: Forse, dopo parecchi anni di riflessione intorno alle possibili declinazioni della pittura, dopo una ricerca costante e probabilmente in certi periodi anche scomoda su ciò che resta del portato modernista, dopo la realizzazione di tanti e complessi progetti ove la sintesi disciplinare ha indicato una risposta al fare, diventa oggi interessante rileggere le tappe cruciali di questo tuo percorso. Quali snodi significativi individueresti, a partire da quando, negli anni Novanta, lavoravi con la pittura monocroma e gli strati di cartone, passando attraverso l’esperienza della coralità mi verrebbe quasi di dire movimentista di Base a Firenze, fino alla produzione più recente, che da una parte vede la pittura sempre più implicata nella disamina di problematiche ambientali e dispiegata sul versante percettivo, e dall’altra continua a coniugare concretezza del dato scientifico/catalogatorio (penso alle mappe) con l’impalpabilità dell’assunto fantastico?

Paolo Parisi: È chiaro che alla fine, riguardandosi a ritroso come in un film (o in un romanzo…), sei portato a sostenere che… tutto torna! Troppo facile. Nel senso che, ad uno sguardo retrospettivo le coincidenze e le scelte appaiono tutte perfettamente connesse e assolutamente non casuali. Ma, fortunatamente c’è un ma. Ed è rappresentato dall’esperienza diretta e dalla possibilità di trovare, o di riformulare, la ragion d’essere degli assunti modernisti oggi. I lavori che si espandono nello spazio, come dici, ambientali, che sono sempre una riflessione attorno alla pittura monocroma, cercano una nuova relazione tra illusione e concretezza dell’oggetto pittorico, come presenza nel mondo e non come rappresentazione del mondo. In questo per me si manifesta l’eredità dell’assunto modernista di cui parlavi prima, che io vorrei tentare di definire meglio. Soltanto attraverso la mia esperienza concreta nel mondo posso parlare di eredità di modernismo o confrontarmi da artista, e non solo come pittore, con le avanguardie. Superando all’improvviso i problemi degli ultimi trent’anni tra realisti e post modernisti. Con i miei lavori parlo di percezione e di rappresentazione della percezione del colore e della pittura piuttosto che pormi il problema di realizzare pittura oggi.
In tutti i passaggi che citi tutto è avvenuto perché mosso da una ricerca – altre volte l’ho definita una condanna, termine che forse rende meglio l’idea – di esperienza diretta delle cose. In questo senso, la matrice modernista cui fai riferimento è stata per me sempre messa in relazione alle necessità, alle urgenze ed alla consapevolezza di esserci qui ed ora. I primi quadri monocromi (gli Inversi, 2000-2006 e poi Coast to coast, 2006-2010) preceduti dai Rilievi (le opere cartografiche cui fai riferimento, 1992-2000), a cui aggiungerei le opere fotografiche Interno, del 1997 (e le coeve opere in ceramica Intorno da cui provengono e che ho esposto alla fine del percorso espositivo alla Fondazione Brodbeck) e le panchine realizzate a strati di cartone coeve alle sculture Observatorium (2004 e 2005) originano tutte da questo confronto con quelle che avvertivo come esigenze personali e culturali del momento, messe in relazione con l’esperienza modernista. Come ho già detto altre volte non mi ha mai interessato la “scatola chiusa” della contemplazione – già soltanto l’idea mi annoia – ma piuttosto la “piazza” del dialogo, che si nutre del diverso ed altrui punto di vista. In questo senso l’eredità modernista è un “capitello dorico” di purezza cristallina per l’utopia che contiene, che ho però dovuto rivedere, rimettere continuamente alla prova del punto di vista attuale. Ecco perché oggi parliamo di pittura nello spazio, di suono, di design, di graphic design… tutto insieme e tutto, volendo, attivo, utilizzabile. Non perché siamo tutti diventati, per sempre, postmoderni ma perché dal moderno abbiamo estratto l’anelito all’utopia (la linea verticale)… con i piedi per terra. E rinunciando al problema della cronaca. La stessa esperienza di Base risponde alle necessità di artisti che, per qualche ragione, vivono a Firenze ed in Toscana. In questo territorio, per me, è stata questa la cosa più giusta da fare: attivarsi per sostenere un’idea di qualità e di precisione insieme ad altri. Costituire un punto fermo nel mondo, anche se temporaneo, con cui osservare, scoprire, esperire il reale condividendo tale scoperta.

DB: Quali gli obiettivi persistenti, quali le necessità che permangono, quali le procedure irrinunciabili?

PP: Continuare questo percorso “sensibile”, questa esperienza diretta delle cose attraverso lo sguardo dell’arte.
Le procedure, come vedi, si adattano alle nostre urgenze per permetterci di realizzare le cose. Dunque mutano. Dare voce alle esperienze, attraverso la visione, e trovare, nel tempo, nuove parole alle cose… per questo si parla nel Novecento di percorso artistico e non di stile: è questa la grande novità critica che rappresenta una svolta rispetto a come l’arte veniva percepita in precedenza.

DB: Hai lavorato con lo sguardo e la sensibilità del pittore con diversi materiali e tecniche extrapittorici e con una pronunciata necessità di articolare nello spazio le tue idee trasformandole in luoghi per un sentire visivo. Quella dimensione del fare mi sembra abbia trovato via via una essenzializzazione, una radicalizzazione degli intenti e della prassi. Mi sembra lo espliciti molto bene la recente mostra alla Fondazione Brodbeck di Catania. È così? Intorno a quali idee hai costruito il progetto?

PP: La mostra in Fondazione occupa un primo capannone che appare saturo di colore – dai tre colori dell’acronimo RGB, rosso, verde e blu, che rappresenta tutti i colori potenzialmente riproducibili – diffuso nello spazio dai grandi filtri in plexiglas colorato collocati in corrispondenza dei lucernari e della finestra. Alle pareti ci sono tre grandi lavori del ciclo Unité d’habitation, realizzati a strati di colore ad olio su tavola, che rimandano alla stratificazione in pianta delle omonime unità di Le Corbusier. La terrazza, in queste, era considerata come l’area di aggregazione degli abitanti e quello che le opere pittoriche ci mostrano è appunto la visione dall’alto (in pianta) di una stratificazione, di una crescita per livelli, per campiture ortogonali. Queste opere sono tutte realizzate con colori scuri, tendenti al nero (terra d’avorio, terra di Cassel e blu di Prussia) a testimonianza della saturazione avvenuta per via del colore nello spazio. Chiudono la mostra, o aprono a seconda del punto di vista, sei opere inedite dal titolo Vis à vis (datura) e che sono dei ritratti di fiori, quelli di datura appunto, che crescono a testa in giù e che, per riprenderli frontalmente, è necessario assumere un punto di vista che è opposto a quello della visione in pianta e della cartografia.
Il rapporto tra l’unico spazio restaurato della Fondazione ed i restanti volumi ancora “in potenziale” mi ha affascinato sin dall’inizio… Hai un esempio di idea di spazio ma tu sai, senti che tutto il resto potrebbe avere tanti altri sviluppi. Un potenziale enorme. Nel 2009, quando cioè fu presentato il progetto Fortino 1 di cui la mostra fa parte, realizzai un’edizione di un manifesto dal titolo Commonplace (Museum), ponendo l’accento su questa energia eccezionale che aveva condotto a concretizzare, a Catania, un luogo comune per l’arte. In seguito il titolo della mia residenza, e mostra, è diventato Commonplace (Unité d’habitation) unendo l’esperienza della Fondazione con quella del quartiere, l’Angelo Custode, che è l’anima (architettonica, e non solo) di una città che negli anni ’50 e ’60 ha ritenuto di dover abbandonare la propria cifra stilistica e storica per sposare l’idea di modernità. Come questa sia stata poi realizzata è un’altra storia, ma mi piaceva soffermarmi sull’idea di unità abitativa – rappresentata dalle unità unifamiliari della Catania storica, intonacate ad azolo, sabbia grigio-nera dell’Etna – e metterla in rapporto all’utopia modernista, risultata per certi versi fallimentare, provando a riscattarla attraverso la pittura. Da queste riflessioni scaturisce l’ambiente totale, come lo definisci, in cui colore, materia, pittura e suono coesistono.
Nel capannone adiacente a quello colorato, il giorno dell’inaugurazione, Massimiliano Sapienza aka Massimo ha saturato lo spazio con i suoni provenienti dalle registrazioni di miei precedenti lavori, in cui mi ero confrontato con i rossi (Chiostro dello Scalzo, Firenze, 2010) ed i verdi (Orto Botanico di Parma, 2007) e con una sua nuova composizione sul blu, per me ancora inedito dal punto di vista sonoro… Da questa è scaturito Blu.Tally che abbiamo appena ripresentato a Riso, a Palermo. In questo senso il suono conferma e amplifica l’idea, e la necessità di densità nell’esperienza della visione, rendendo fisico il rapporto con lo spazio architettonico: il precedente a questo lavoro presentato a Riso è sicuramente quello realizzato a Monaco – Observatorium (Valle del Bove), 2006 – in cui il suono dell’Etna e le nostre voci letteralmente invadevano ed attraversavano l’architettura, intesa quindi come spazio di esperienza e condivisione. In quella circostanza il suono rappresentava l’insondabile. La voce della natura tradotta scientificamente ma sempre incontrollata. Pensa che all’inizio volevo ottenere i suoni in diretta dalle sonde collocate sull’Etna. Successivamente ho dovuto desistere perché era vietata la riproduzione in diretta di valori – sonori – che servono per monitorare i rischi di eruzioni o terremoti. Così ripiegammo, per così dire, su una versione registrata e differita. Ma…: in realtà, cosa cambia sapere in anticipo che il vulcano erutterà? È la questione dell’uomo moderno: sapere, nonostante non cambi niente. L’architettura sonora concepita per Riso – Observatorium (Blu.Tally), 2011 – prosegue la riflessione su questi aspetti, ed in particolare: densità dell’esperienza visiva e spazio architettonico come luogo comune di esperienza.

DB: Nelle sale della mostra alla Brodbeck c’è una mobile e continuamente diversa condizione di equilibrio tra la fisicità della natura (luce) e l’artificio della struttura (plexiglas colorato che filtra la luce) che costruisce una circolarità sempre uguale ma di fatto sempre diversa. Hai ragionato altre volte su questo tema?

PP: Negli ultimi anni il tema del movimento è entrato nel mio lavoro in maniera abbastanza evidente… devo dire sinceramente di non averlo perseguito in maniera programmatica, ma evidentemente era presente nell’idea e dunque nel lavoro finale. Così nella personale al Museo Pecci del 2008 – Observatorium (Museum) – il disegno a parete, realizzato ad argento e rappresentante delle vedute costiere in prospettiva, si attivava attraverso il nostro movimento nello spazio saturo di colore; a Monaco nel 2006, nella personale al Lenbachhaus – Observatorium – Gegen Den Strom – , il suono diffuso nello spazio attraverso i collegamenti acustici forniti dai tubi che attraversavano l’architettura del museo teneva insieme le sei sale utilizzate per la mostra; a Quarter (oggi Ex3) a Firenze nel 2004 – Conservatory (San Sebastiano) – era necessario esperire interamente l’enorme volume dello spazio per scoprire i volumi interni delle sculture in cartone (Observatorium), entrarvi dentro ed ascoltare le voci degli altri insieme al suono diffuso nell’ambiente (realizzato da John Duncan per l’occasione) dai tubi idraulici colorati; a Villa Romana, nel 2007 – Nomi dei colori classici (Sinfonia) -, così come nell’Orto Botanico di Parma nel 2007, era necessario aggirarsi nel paesaggio o tra le specie botaniche per avere un’esperienza del colore (i verdi del campionario RAL) e del suono associato dai musicisti alle tinte; al Chiostro dello Scalzo, a Firenze nel 2010 – Il problema della condivisione dello spazio disponibile in architettura e rispetto al colore della pittura …e il pulviscolo atmosferico – , la visione del chiostro e degli affreschi di Andrea del Sarto, realizzati in bianco e nero, avveniva attraverso un’esperienza comunque legata al movimento: tra i musicisti che interpretavano le gradazioni esistenti tra il rosso ed il violetto, immersi in un ambiente saturo di colore ed in continuo mutamento, a seconda delle ore del giorno; all’ingresso della Fondazione Brodbeck, infine, i tre fiumi siciliani più importanti per portata – Salso, Platani e Simeto – realizzati a pennarello argento su fotografie di cielo, assumono il colore che li circonda e col riflesso mutano a seconda del nostro movimento nello spazio (Under the bridge, 2011)… Come vedi il confronto col mutamento, presente in maniera così evidente in quest’ultima mostra alla Fondazione, sia esso provocato dal nostro stesso movimento che dal movimento della luce del sole nello spazio, a questo punto è per me come una cifra. È nel DNA del lavoro. In fondo, se ci pensi, in questi casi, e soprattutto alla Fondazione, si esprime un’impossibilità del lavoro di manifestarsi completamente ad un unico sguardo. Come se la visione ottimale fosse costituita da una somma di punti di vista ottenuta mettendo insieme diversi momenti “luminosi” e diverse possibilità di osservazione dei quadri, a seconda della nostra presenza nello spazio.

DB: Le tue mappe si pongono rispetto alla realtà come attenzione lenticolare per un verso e come macchina fantastica per l’altro, rivendicano la dimensione fisica mentre catturano quella concettuale. Cosa ti ha portato all’universo della mappa e come ti sei confrontato con la sofisticata tradizione artistica che ne ha fatto in più occasioni, soprattutto negli ultimi decenni, oggetto di ricerca?

PP: Il mio lavoro sin dall’inizio si è soffermato sul rapporto tra una scientificità dell’assunto iniziale – o forse sarebbe meglio dire non arbitrarietà… – e la “nascita”, quasi miracolosa, dell’immagine artistica, e la sua prevalenza sull’assunto iniziale. Se penso alle carte geografiche di Leonardo o, meglio, alle vedute di Canaletto e di Bellotto, ottenute con l’ausilio della camera chiara, trovo che il punto d’arrivo è comunque il quadro: un’immagine d’Arte e dell’Arte, in cui i parametri di lettura non sono più scientifici ma artistici. Se ricordi i Rilievi (1992-2000) erano ottenuti ritracciando con i polpastrelli e l’argilla delle carte nautiche del Peloponneso, proiettate sulle tele. Il gesto ricalcava delle immagini preesistenti e si confrontava con la ripetizione, simile a quello che, dal ’94, ha generato le sculture di cartone e gesso che tuttora realizzo (U.s.a.i.s.o., 1994-2011). Successivamente, negli Inversi (2000-2006) la cartografia era, se vogliamo, nascosta, sovrastata, cancellata da stesure monocrome di colore acrilico dalle quali… riemergeva comunque in un secondo momento. In questo modo il paesaggio – i segni ad olio sottostanti la stesura monocroma – e l’Architettura – la stesura monocroma realizzata con colori da esterni – si fondevano in un’unica immagine. Un processo in grado di generare un’apparizione imprevista, seppur mutevole ed incontrollabile, che si oppone ostinatamente ad un destino di sparizione. Come dici, una macchina fantastica!

Dal momento in cui la pittura si è emancipata dal suo stesso isolamento, aprendosi alla relazione con lo spazio, ma anche con altri mezzi e possibilità di espressione e di esperienza, credo che sia possibile per noi permetterci qualsiasi forma di ridefinizione. Soprattutto, per quanto mi riguarda, in termini di non isolamento. Così l’energia effimera, mutevole, fugace emanata dalla luce che, filtrata, attraversa e colora l’architettura può coesistere con la fisicità della pittura e con la densità immateriale dell’esperienza sonora. E qui, sulla coesistenza e condivisione, e soprattutto sulla fisicità e sull’urgenza del nostro essere qui ed ora giungiamo a quello che per me è il nocciolo della questione. Oggi, forse meglio che in ogni altro periodo storico, la pittura può riconquistare il suo terreno originario: lo spazio e la sua ridefinizione.

© Daniela Bigi, 2011. In «Arte e Critica» n° 68, Roma autunno 2011.